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l’intervista

Albertini, presidente di Anama: “Cargo aereo, l’Italia è ancora debole. Studiamo il rilancio insieme alle imprese”

Al questionario presentato in occasione del quinto Osservatorio sul Cargo aereo, incontro organizzato dagli spedizionieri aerei la scorsa settimana a Milano, hanno risposto 37 aziende di spedizione e solo una quindicina di aziende di produzione

Alberto Quarati
Aggiornato alle 2 minuti di lettura
Aereo cargo (foto d'archivio) 

Genova - Al questionario presentato in occasione del quinto Osservatorio sul Cargo aereo, incontro organizzato dagli spedizionieri aerei la scorsa settimana a Milano, hanno risposto 37 aziende di spedizione e solo una quindicina di aziende di produzione, che degli spedizionieri dovrebbero essere i clienti. In questa differenza di interesse, c’è già tutta la distanza che oggi intercorre tra il mondo della logistica e quello produttivo.

Il risultato la sorprende?

«Non troppo - risponde Alessandro Albertini, presidente dell’Anama, l’associazione nazionale degli spedizionieri aerei -. In generale le aziende italiane preferiscono produrre franco fabbrica, o ex works: due termini tecnici per dire che l’impresa realizza in Italia il prodotto per l’esportazione, ma del viaggio di quella merce se ne occupa il cliente nel Paese di destinazione. Forse anche per questo, relativamente alle questioni legate ai trasporti, rileviamo in genere uno scarso interesse».

Occuparsi del viaggio della propria merce costa di più.

«È vero, ma alla fine siamo sicuri che non occuparsene costi meno? Non curarsi direttamente del trasporto alla fine espone la merce a maggiori rischi, perché non la si può controllare in prima persona. E se un prodotto arriva danneggiato, o una merce deperibile arriva non più commestibile o bevibile, difficilmente riuscirà ad avere successo su quel mercato: così si perdono soldi. Non credo sia un caso che le aziende che hanno risposto al questionario abbiano messo la sicurezza della spedizione in cima alla lista delle priorità. Sicurezza intesa come rispetto degli orari - cosa che ad esempio il trasporto marittimo, specie negli anni della pandemia e a differenza di quello aereo, ha perso un po’ per strada - e consegna del prodotto integro».

Sono anni che si discute del franco fabbrica, come cambiare le cose?

«Tramontata la prospettiva di avere una compagnia di bandiera in grado di supportare il nostro traffico merci, credo sia necessario fare un piano generale dei trasporti, a livello di governo, che sia in grado di stabilire le priorità. Se non possiamo avere un vettore forte, in grado di esportare il Made in Italy in tutto il mondo, allora è necessario fare una politica commerciale che coinvolga anche le aziende, spingendole a investire di più sulla spedizione diretta, tanto più - così emerge dal nostro Osservatorio - che rispetto al periodo pre-pandemia, la voce costo non è più in cima alle preoccupazioni dei produttori. Segno che qualche cosa sta cambiando».

Connettere gli aeroporti alle ferrovie potrebbe aiutare? È un tema della vostra ricerca.

«Anche per questo servirebbe una pianificazione molto attenta, e soprattutto sarebbe necessario che i nostri aeroporti, e penso nello specifico a Malpensa, che ha la quota più alta del cargo in Italia, riescano a servire in export non solo il nostro Paese ma anche Svizzera, Austria, Germania meridionale. È il vecchio progetto dell’hub per il Sud Europa. Se invece dovessimo pensare all’intermodale solo per il traffico originato dall’Italia, non ci sono i volumi per giustificare l’organizzazione di un servizio via treno diretto, per esempio, dal Sud Italia a Malpensa. E sotto certe distanze, non si può fare a meno del camion. Il treno va organizzato il giorno prima, cosa poco funzionale alla spedizione aerea, che è la modalità tipico dei trasporti rapidi».

Anche Msc ha chiesto un nuovo piano dei trasporti. Nel vostro settore sembra una richiesta diffusa.

«Per un motivo molto semplice: finché l’esportazione del Made in Italy è affidata a soggetti stranieri, noi arriveremo sempre secondi. I due maggiori punti di inoltro della merce italiana fuori dall’Europa sono Parigi e Francoforte. Davvero lei pensa che quando è la stagione del Beaujolais in Francia, o quando c’è un picco del settore auto in Oriente, ci sia spazio per le nostre merci? Non è così: rimangono a terra, in attesa di partire. Aggiungo che a mio giudizio, pur non vedendo nel settore del cargo aereo la possibilità di una compagnia di bandiera, ci sono molti soggetti interessati al mercato italiano: penso a Cargolux, che pur essendo una multinazionale sta facendo crescere da tempo la sua controllata italiana. Del resto, la ritirata dal nostro mercato di AirBridgeCargo, operatore russo che aveva una forte presenza nel nostro Paese, ci sarebbero per i vettori delle opportunità per provare nuove linee. Ecco, anche il tema di uno o più vettori che possano concentrarsi sull’Italia, può essere parte di un piano di un piano strutturato per i trasporti».

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