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Marginalità: è il destino sociale della Liguria dei porti

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In principio era il Porto, e il Porto era Dio. Oggi Genova e Savona sono equiparate a Manfredonia, strangolate dalla burocrazia alimentata da una dolosa riforma. Svuotate, appiattite, costrette a cantare e a portar la croce senza alcuna autonomia decisionale. Non basta nemmeno più una legge speciale con cui il governo riconosca ai due porti lo status di sistema strategico su cui l’Italia punta per crescere e recuperare traffici. Una soluzione ragionevole sarebbe l’attribuzione all’Autorità di sistema portuale di poteri straordinari. Per consentire al presidente di intervenire e decidere a tutto campo, sui fronti del lavoro, delle imprese e dei business. Per sottrarlo allo stillicidio dei condizionamenti da bazar levantino e delle pressioni politiche da basso impero. Per confermare che Genova è l’unico porto europeo al servizio del continente.

Oggi la nuova Authority è un ente economico di sviluppo solo sulla carta, ma in realtà scandalosamente sottoposto all’Istat, cioè a rigide forme di contabilità pubblica su acquisti, assunzioni e appalti. Paolo Signorini, che dei due porti è presidente, non dispone di poteri concreti. Non può, ad esempio, rivisitare statuti ostili al mercato come quello dell’Aeroporto spa. O far saltare accordi di programma (Cornigliano) per recuperare aree preziose per la logistica e il territorio. Non ha titolo per acquistare le parti non demaniali dello stabilimento Piaggio e collocare sul mercato l’area unificata, non guardando al solo profitto ma al bene comune per l’economia e il lavoro. Impensabile che tra le pieghe della Brexit possa cogliere ricche opportunità, convincendo i colossi del brokeraggio assicurativo ad insediarsi sotto la Lanterna. Non può scegliersi collaboratori né dettare le regole del gioco. L’uomo che rappresenta il principale porto italiano cammina a cavallo delle banchine disseminate di mine anti-uomo con il cerino in mano. Perché il regime omologato frantuma le grandezze di scala, mette sullo stesso piano terminal che movimentano quasi 4 milioni di container l’anno e approdi che non ne contano 100 mila, cataloga il lavoro portuale senza distinzioni.

Chi tiene in scacco Genova nell’omertà più assoluta, consentendo il perpetuarsi dell’immobilismo consociativo e parassitario e del potere della burocrazia? Hanno copiato, frugato, saccheggiato, forse avvelenato i segreti più preziosi del porto e di loro sappiamo che il capolinea sta a Roma e che il rapimento dei codici di programmazione del sistema ligure potrebbe rivelarsi una minaccia letale. Nel vuoto assoluto di idee, sostegni e contributi da parte della politica locale, la nuova Autorità sembra incapace perfino di dotarsi di un board (l’ex Comitato portuale) adeguato e consono ai problemi e al mercato. In compenso il pressing sulla presidenza è asfissiante. Perché gli obiettivi dello stesso retrobottega della politica non sono la plurivelocità della nuova Europa, l’integrazione nello scenario Reno-Alpi in nome della crescita e della competitività ma solo piazzare questo o quell’altro professionista di fiducia tra gli ingranaggi del mausoleo di Palazzo San Giorgio. L’arretratezza delle infrastrutture è ormai un alibi. E il dramma dello shipping allo stremo sembra un problema che interessa i marziani, non la Liguria. Eppure i conti di Maersk fanno impressione, il disastro Hanjin dimostra che anche i colossi non sono mai troppo grossi per non essere lasciati fallire, la tedesca Commerzbank AG e la HSHNordBank si sono dissanguate prestando soldi alle compagnie marittime.

La realtà è che a questa parte di Genova che conta, importano ben poco le leggi speciali o i poteri straordinari concessi al porto e al suo presidente. Probabile che abbia già scelto di restar fuori dal disegno europeo di sviluppo in nome della decrescita e del mantenimento di locali privilegi. E che abbia anche rinunciato a costituire su queste banchine di Genova e Savona la base a sud del corridoio del Gottardo. Nessuna alleanza economica e culturale per riconquistare i business della pianura padana, destinati a gravitare sempre più sulla Lombardia e sul Nord Europa. Competitività, crescita e regole sono altrettante bestemmie. E’ l’autoprotezionismo dei privilegi di pochi. Frenare e invertire la rotta è possibile. Con interventi speciali. Ma la sensazione sempre più pesante è che scrivere su Genova sia un po’ come scommettere, alle corse, su un cavallo zoppo: inutile sprecarci inchiostro. E poi per parlare a chi? Non certo ad amministratori afoni, impalpabili, che non si preoccupano neppure più di rispondere a un codice etico stabilito dal loro partito o dal loro Capo ma seguono copioni individuali composti dall’incompetenza, dall’inutilità, dall’arroganza, dalla supponenza, dagli interessi personali.

E i genovesi? Ormai sono abituati ad attraversare campi minati, scavalcare fili spinati, attendere inutilmente autobus sgangherati, perdere giornate incolonnati sulle auto ai caselli, annusare olezzi da latrina. Un suk di assuefatta disperazione. Chi si ricorda che questa città ha bisogno di idee e progetti? Chi si preoccupa del fatto che esiste anche una città dove invisibili presenze senza nome costruiscono rifugi e rovistano tra rifiuti? Continuiamo ostinati a domandarci: sarà ancora possibile disegnare un modo diverso di essere vivi?

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