Genova e il porto, si vive solo due volte
Genova - Il domani non muore mai, anche se il porto di Genova deve sperare in un Babbo Natale molto generoso per ripulirsi dalle scorie, andare oltre il grado zero della politica e scavalcare il vuoto su cui sono stati appesi programmi, manovre e carriere. Si è rotto il meccanismo delle infrastrutture, salta la sostenibilità economica della logistica e l'intero sistema cade a pezzi, si logora ogni giorno di più arroventando l'eterno conflitto tra banchine e città. Genova è marginale. Un porto che non è servito dalla ferrovia (perché molti imprenditori osteggiano i binari) non può dolersi troppo se chiudono le autostrade e il traffico si trasforma in apocalittico inferno. L'Interporto di Alessandria era un salvagente e lo resta. Ma per ora è solo uno scarabocchio sulla carta, perché nessuno promuove concretamente un'intesa ferroviaria per fermare i container nel retroporto.
Sconcerto, indignazione, congestion surcharge sono le parole che definiscono lo stato d'animo degli operatori, dei portuali e dei genovesi. Ma c'è anche chi, cifre e proiezioni alla mano, predica speranza. Non a torto. Perché si può ancora costruire e modellare un nuovo brand del porto di Genova per far pace con la città e vendere un prodotto vincente. Un brand di innovazione: perché la visione di futuro pone al centro tecnologia, ambiente, formazione, logistica avanzata, intelligenza artificiale, recupero degli spazi a mare per insediamenti di aziende impegnate nell'assemblaggio dei prodotti e della componentistica. Cioè un esaltante ecosistema integrato, capace di far dialogare produttori, operatori, imprese, merce, navi e treni e destinatari finali. E poi un brand di investimenti: perché le infrastrutture restano essenziali per la qualità della vita, la celerità degli spostamenti e l'aumento dell'occupazione. Perché servono in tempi molto rapidi il ribaltamento a mare di Fincantieri, la torre piloti, la nuova diga, i bacini di carenaggio, i dragaggi, le opere ferroviarie. Un brand è fatto di "giocatori", di imprenditori che remano nella stessa direzione, di istituzioni coraggiose e vivaci, di marchi, cooperative. Esseri umani, talenti e visibilità. Investitori stranieri in quanto il territorio è accattivante. Ma soprattutto non dipende da dove arriva l'investitore, ma che cosa ha in testa. Se si tratta di un investimento per costruire innovazione e affari, in un arco minimo di dieci anni, allora è un bene per tutti. Chi fa qualcosa di positivo per la propria azienda porta un valore a tutta la denominazione. E il porto si posiziona come una locomotiva che traina l'intera "Denominazione Genova".
Poi c'è chi è nella media e chi è indietro, l'unicità non esiste. Si può fare? Si può vendere? Certamente chi continua a produrre un vino cattivo danneggia tutta la comunità. Sicuramente non è propedeutico al lancio del brand l'inadeguatezza politica che, ad esempio sul tema della tassazione dei canoni voluta dalla Commissione europea, trascinerà nel caos la stessa natura giuridica delle Autorità portuali. Attese nel nuovo anno da scadenze di mandati presidenziali, siluramenti e rinnovi ai vertici. Insomma, un futuro giocato tra brand e gossip. E' vero anche che il "Genoa Brand" è appeso a un filo molto sottile. Del resto i cambiamenti radicali non si possono realizzare senza impegno e coraggio di rischiare. Le riforme implicano molto studio e molti conflitti: perché quelli che vogliono mantenere lo status quo, anche a costo di rallentare la crescita, sono tanti. E contano.
Il Vangelo dello shipping insegna che ovunque ci sono luoghi caldi nei quali la trasformazione dei porti e delle città avviene, tra inevitabili limiti e ostacoli, per autogenesi, cioè non per processi programmati dalle forze del mercato o dalle istituzioni pubbliche ma per l'azione diretta della gente e del popolo. Un porto fai da te. Perché, in fondo, si vive solo due volte.
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