Gli ingegneri e la memoria dei fallimenti / EDITORIALE
Genova - L’ingegnere che ebbe l’ingrato compito di fronteggiare la Grande Depressione del 1929, il presidente Herbert Hoover, affermava che un ingegnere non può seppellire i suoi errori nella tomba come i medici; né può trasformarli in aria sottile o darne colpa ai giudici come gli avvocati.

Genova - L’ingegnere che ebbe l’ingrato compito di fronteggiare la Grande Depressione del 1929, il presidente Herbert Hoover, affermava che un ingegnere non può seppellire i suoi errori nella tomba come i medici; né può trasformarli in aria sottile o darne colpa ai giudici come gli avvocati. Egli non può coprire i suoi insuccessi con alberi o rampicanti come gli architetti; né, come i politici, riversare gli errori sugli oppositori sperando che la gente dimentichi. Può solo sperare che l’esperienza – la somma di tutti gli errori, secondo Thomas Alva Edison – aiuti a migliorare le scelte del presente e del futuro. L’ingegneria moderna ha il controllo dell’intero ciclo di vita delle sue opere e, se tale ciclo si risolve in una catastrofe, deve fare i conti con il proprio tragico fallimento.
Devo però risalire al 1970, all’appello di Giulio De Marchi – docente di Idraulica del Politecnico di Milano e presidente della Commissione per la Difesa del Suolo – per riscoprire la consapevolezza sulla missione dell’ingegnere: «La documentazione sugli eventi negativi deve essere perfettamente conosciuta da chi intende operare sul territorio e in primo luogo, oltre che dai funzionari delle pubbliche amministrazioni, dai professionisti laureati e diplomati, dai docenti e dagli allievi delle scuole corrispondenti a tali professioni. Soprattutto nelle scuole d’ingegneria non dovrebbero essere tollerati il silenzio o le spiegazioni monche, distorte o evasive, sulle difficoltà e sugli insuccessi delle opere d’ingegneria». Si riferiva alla tragica sequenza di errori alla base della catastrofe del Vajont, ma è un principio che si può applicare tal quale a quelle genovesi, dal Bisagno alla Torre Piloti e al Ponte. La diga del Vajont è ancora lì – 262 metri in altezza, la più alta d’Italia – ma vale la pena costruire una diga indistruttibile, se il risultato sono duemila morti a valle? La si può battezzare un “successo” dell’ingegneria civile come fecero alcuni tra i miei insegnanti e fanno tuttora parecchi tecnici? Come hanno scritto Hendron e Patton, gli studiosi del U.S. Army Corps of Engineers che studiarono il disastro, il Vajont è un classico esempio del fallimento di ingegneri e geologi nel comprendere il problema che tentavano di risolvere, ma ha gettato comunque le basi della moderna geo-ingegneria. Il disastro del Ponte sul Polcevera – un archetipo tecnico, culturale e affettivo per i baby-boomer genovesi che hanno scelto l’ingegneria civile come missione – saprà far scuola? L’Italia è un paese che, da anni, infanga la cultura del progetto, disprezza la competenza e umilia la pratica della manutenzione.
L’autore, ingegnere civile, è ordinario di Costruzioni idrauliche e marittime e Idrologia al Politecnico di Milano