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«Enormi passi avanti, ma l’uomo alla guida è ancora indispensabile» / INTERVISTA

Genova - Trivedi: il mezzo deve prevedere i comportamenti, dentro e fuori.

FRANCESCO MARGIOCCO
2 minuti di lettura

Genova - Le plance delle navi, come le cabine di pilotaggio degli aerei, sono gli ambienti ideali della guida autonoma. «I progressi nella tecnologia sensoristica, informatica e dell’intelligenza artificiale stanno rendendo la presenza dell’uomo sempre meno indispensabile. In più, i tempi di manovra di aerei e navi sono lunghi e per questo particolarmente adatti».

Mohan Trivedi, però, preferisce sfide più difficili. Dal 2001 questo 65enne ingegnere informatico indiano trapiantato in California dirige il Lisa, che lui stesso ha fondato. Il suo interesse è tutto rivolto alle automobili. Lisa fa parte della University of California-San Diego, una delle maggiori università pubbliche di ricerca degli Stati Uniti, dove Trivedi è “distinguished professor”, massimo gradino della carriera accademica. Considerato una delle menti più fervide in materia di guida autonoma, Trivedi è un consulente molto richiesto dalle industrie automobilistiche e dai governi, in America e altrove. In questi giorni è in viaggio di lavoro in Europa, e lunedì era a Genova dove ha tenuto una lezione all’Università.

«L’accento sulla sicurezza - spiega - è fondamentale. Per questo ho voluto includere la parola “safety” nel nome del mio laboratorio. Non era così scontato».

L’accento non è piaciuto alle case automobilistiche?

«(Sorride). Ho avuto qualche discussione, molto civile. È da vent’anni che le case automobilistiche studiano la guida autonoma ma è solo da cinque che lo fanno convintamente, perché ne intravedono il successo. Le aspettative sono altissime, anche oltre la soglia del ragionevole, e la sicurezza passa in secondo piano. Cinque anni fa non era neppure considerata, ora per fortuna sì».

C’è chi azzarda che nel 2030 l’auto che si guida da sé sarà sicura e di uso comune.

«È un azzardo e preferisco non avventurarmici. Mi pare comunque una data un po’ troppo ottimistica, ci sono ancora dei nodi da sciogliere».

Il principale?

«Tralasciando gli aspetti legali, che non mi competono ma non sono affatto secondari, il problema numero uno va sotto il nome di percezione olistica, con cui intendiamo la capacità di vedere e interpretare i movimenti nel loro insieme, sia all’interno che all’esterno della macchina, e di dare la risposta giusta in tempi molto rapidi».

Qualche esempio?

«Gli autisti in carne ed ossa, quelli bravi, sanno prevedere con discreta precisione come si comporteranno le auto o moto che sono davanti o dietro a loro, e sanno agire di conseguenza. Per poter fare altrettanto o meglio il computer deve poter parlare con i computer delle altre macchine, scambiare con loro informazioni, ma prima che questo accada occorre che tutte le macchine in circolazione abbiano il computer e parlino la stessa lingua».

E i movimenti all’interno della macchina?

«Questa è una parte molto delicata. In una macchina a guida autonoma siamo tutti passeggeri: possiamo tutti chiacchierare, distrarci e addormentarci. Ma il computer può avere bisogno di noi per superare una fase di difficoltà, dovuta ad esempio alla pioggia, alla nebbia o a una situazione improvvisa di traffico. Se dormiamo, può svegliarci con un allarme in un attimo ma quell’attimo può essere troppo. Deve quindi monitorare i nostri comportamenti, interpretarli e se si accorge che siamo troppo distratti o mezzo addormentati quando dovremmo essere più vigili, deve avvisarci. Senza però essere troppo invasivo. Altrimenti l’esperienza della guida, che oggi è tutto sommato piacevole, diventerebbe una seccatura».

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