«Italia costretta a importare acciaio da Paesi che non rispettano l’ambiente» / INTERVISTA
Genova - «Le quote di mercato cedute agli stranieri fanno doppiamente rabbia, perché l’industria italiana è costretta a importare da Paesi in cui il rispetto ambientale dei produttori è nullo». Così Alessandro Banzato, presidente di Federacciai
Gilda Ferrari
Genova - «Le quote di mercato cedute agli stranieri fanno doppiamente rabbia. L’industria italiana ha perso un fornitore di riferimento ed è costretta a importare da Paesi in cui il rispetto ambientale dei produttori è nullo». Alessandro Banzato, presidente di Federacciai, interviene dopo che Il Secolo XIX ha raccontato cosa hanno prodotto otto anni di crisi dell’Ilva, dal commissariamento del 2012 al 2019: la produzione di coils si è dimezzata da 9,3 milioni a 4,5 milioni di tonnellate annue, secondo i dati Siderweb, il consumo è aumentato di 2,2 milioni di tonnellate perché l’industria metalmeccanica ha lavorato, le importazioni di prodotti piani sono quasi raddoppiate salendo da 5,6 milioni a 9,6 milioni di tonnellate: «Analisi molto interessante. - commenta Banzato - Leggere i numeri messi in fila colpisce anche chi, come me, conosceva il fenomeno».
Le quote perse da Ilva sono andate a produttori cinesi, turchi, russi, indiani.
«I temi motivo di rabbia sono due: da un lato la nostra industria, seconda in Europa, perde un punto di riferimento della fornitura; dall’altro, ancora più grave, siamo costretti a importare da Paesi in cui il rispetto ambientale è nullo rispetto agli standard europei».
Il governo parla di rilancio da otto anni e oggi importiamo metà dell’acciaio che consumiamo. Ilva non è più strategica?
«Lo è ancora, invece. Per me lo è in termini assoluti. Se il governo pensi lo stesso non lo so, spero di capirlo presto».
Strategica nonostante abbia perso mezzo mercato?
«Certo, lo dicono i numeri. Avremmo perso di più, se non ci fosse stato un altro produttore nazionale – Arvedi – che ha aumentato la sua produzione attutendo il colpo. La produzione di Taranto resta comunque strategica perché quasi la metà dei coils arriva ancora da lì. Certo bisogna riconquistare quote, che sono andate perse per diverse ragioni».
Dal commissariamento del 2012 la produzione di Taranto è stata ridotta.
«È una ragione, ma non è la sola. La fortissima incertezza sul futuro dello stabilimento ha fatto scappare i clienti. Se io so che il mio fornitore non è affidabile nel tempo comincio a guardarmi intorno, preparo strade alternative».
Strade che sembrano essersi strutturate: l’import è balzato da 5,6 a 9,4 milioni di tonnellate nel 2015, senza più scendere, anzi salendo a 9,6 milioni nel 2019. Ilva può ancora recuperare?
«Dipende dal tipo di prodotto. Ci saranno contratti di fornitura annuali e contratti spot. Un recupero di quote non può avvenire dall’oggi al domani, ma in un tempo medio-breve sì. Un nuovo fornitore non si lascia mai del tutto, ma se il produttore nazionale di acciaio torna sul mercato ed è affidabile sotto tutti i punti di vista (quantità, qualità, consegne) è certo che i clienti nazionali tornano. Questo è fuori discussione».
Com’è la qualità dell’acciaio prodotto dai Paesi extra Ue?
«Buona. Questi Paesi sono in grado di fare produzioni di qualità capaci di soddisfare anche mercati come i nostri, hanno fatto importanti investimenti in siderurgia che hanno permesso loro di crescere anche in termini tecnologici e di qualità. La competizione è ormai globale, a 360 gradi».
Conviene acquistare acciaio da Cina, India, Turchia o Russia e trasportarlo in Italia?
«Questi Paesi hanno norme ambientali meno stringenti delle nostre e praticano prezzi più bassi, che consentono di coprire i costi del trasporto».
Dazi e sistema di salvaguardia Ue funzionano male?
«Facendo un’analisi pre-Covid, la salvaguardia ha funzionato abbastanza bene. Ora fare valutazioni è difficile perché i consumi si sono ridotti. Quando Eurofer ha chiesto di rivalutare le quote di salvaguardia dei vari prodotti ha fatto bene, non averle riviste è stato un errore».
Cosa dicono le previsioni di mercato per i prossimi anni?
«Ci aspettiamo una ripresa. Qualcosa si sta già muovendo, anche nel mondo dei coils: la domanda non è male e i prezzi si stanno rialzando, si comincia a vedere qualcosa e andando avanti si vedrà ancora di più. Lo spazio per Ilva c’è».
Recovery Fund: il governo si è fatto vivo con i siderurgici?
«Domani (oggi, ndr) discuteremo una prima bozza su obiettivi di investimenti e spese, è il primo incontro, ne seguiranno sicuramente altri».
Su Ilva siete in contatto con il governo?
«No, non abbiamo aggiornamenti».
ArcelorMittal resterà in Italia o se ne andrà a fine anno?
«Spero che resti. Se ci fosse un passaggio allo Stato mi auguro sia breve, in attesa di assegnarla a un altro privato».
Straniero, visto che nessun gruppo italiano ha la forza di gestire il gigante d’acciaio?
«Straniero, per forza. Ma io spero che le cose, alla fine, si sistemino con ArcelorMittal».
Parte del governo parla di chiusura dell’area a caldo a Taranto. È sostenibile?
«No. Ilva dovrebbe diventare un importatore di bramme. Basta guardare Piombino, dove non si riesce a finalizzare un piano industriale serio».
E l’idrogeno?
«In prospettiva, tra almeno dieci anni. Ma il problema lo abbiamo oggi e va risolto oggi».
Il progetto del governo prevedeva altiforni e forni elettrici: non se ne parla più?
«Avevamo iniziato a parlare di questa soluzione con i commissari prima del Covid. Inserire due milioni di tonnellate di produzione da forno elettrico rende indispensabile avere il preridotto, per ragioni di qualità e perché il rottame manca».
In Italia ci sono competenze sugli impianti di preridotto?
«Danieli e Tenova fanno impianti insieme nel mondo. Ma si può anche decidere di fare una gara internazionale».
Se l’obiettivo del governo fosse prendere tempo per poi dire che Ilva è morta mentre si stava cercando la cura?
«Può essere. Sarebbe gravissimo».
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