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Messina: «I settori di nicchia salveranno le medie aziende dello shipping»

Genova - Secondo Stefano Messina, armatore genovese e presidente di Assarmatori, trai limiti attuali della logistica italiana ci sono la troppa burocrazia e la carenza di grandi opere che penalizza l’intera economia nazionale.

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Genova - Secondo Stefano Messina, armatore genovese e presidente di Assarmatori, trai limiti attuali della logistica italiana ci sono la troppa burocrazia e la carenza di grandi opere che penalizza l’intera economia nazionale. Ma l’intero comparto marittimo, negli ultimi anni, ha affrontato enormi trasformazioni a livello globale che hanno interessato anche i gruppi armatoriali italiani che operano nel settore. Senza contare che «l’ingresso in forza di grandi player marittimi anche nella logistica di terra, a partire dai terminal portuali per passare alle spedizioni e arrivare sino alla gestione dei terminal interportuali, potrebbe imprimere una spinta positiva decisiva».

Come è cambiato negli ultimi anni il settore della logistica in Italia?
«Un dato significativo in questo comparto – sottolinea Messina - è certo rappresentato da una presenza sempre più massiccia di gruppi armatoriali, sia del settore container sia del mercato Ro-ro, nella componente terrestre del ciclo di trasporto. La logistica sta quindi diventando sul campo quello che per moltissimi anni era stato oggetto più di discussioni accademiche che di fatti concreti. La logistica diventa quindi integrazione di un flusso ininterrotto di beni e di merci con operatori che trovano la quadratura del cerchio e anche equilibri di bilancio nel controllo dell’intera filiera, comprensiva in molti casi anche dei terminal portuali che diventano a tutti gli effetti fattori di produzione logistica».

La tecnologia sta assumendo un ruolo sempre più importante nel comparto marittimo-portuale. Come è cambiato il lavoro degli armatori?
«Più che altro è cambiata e sta cambiando, non senza forti scossoni e l’uscita di scena di molti gruppi, la funzione stessa degli armatori, il ruolo che rivestono nell’intero settore. La nave, infatti, tende a diventare un anello della catena del trasporto e sempre meno un bene di proprietà in grado di vincolare le scelte di compagnie alle quali è richiesta una grande flessibilità gestionale e una capacità - che rappresenta il loro valore aggiunto - di cogliere e sfruttare in tempi rapidissimi la domanda che emerge dal mercato».

In che modo stanno resistendo e quale futuro possono avere le piccole aziende del settore in un comparto sempre più dominato dai grandi gruppi industriali?
«La parola magica è “nicchia”. Se è vero che sulle grandi rotte dell’interscambio mondiale la partita si gioca ormai solo all’interno di un ristrettissimo club di soggetti dominanti, è altrettanto vero che la globalizzazione tutt’oggi protagonista di profonde trasformazioni strutturali anche nella mappa della produzione industriale, rende urgente servire e connettere sempre nuovi territori. E per farlo si richiedono connessioni, conoscenza dei mercati, delle abitudini, delle infrastrutture, dei porti. Le medie aziende del settore marittimo hanno dimostrato e stanno dimostrando di saper assolvere questo compito».

Come giudica il ruolo della finanza nel mercato dello shipping italiano?
«Questo è un argomento particolarmente delicato che non può essere affrontato con superficialità. Di certo gli schemi tradizionali del mercato, da quello del credito navale a quelli più recenti dell’ingresso di fondi speculativi, stanno segnando il passo e imponendo quindi una riflessione globale in grado di fornire risposte in tema di continuità ed efficienza a un’industria, quella del mare, che è strategicamente essenziale per il commercio e l’interscambio mondiali».

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