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Fisco quasi azzerato per gli armatori, in Europa il paradiso delle compagnie

Il mese scorso Cma Cgm - terzo armatore mondiale, azionista di Air France in pista per comprare Ita Airways - ha decretato uno sconto di 750 euro per ogni container in arrivo dall’Oriente alla Francia. Ad aprile, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha tuonato contro le grandi compagnie

Alberto Quarati
3 minuti di lettura

Genova - Il mese scorso Cma Cgm - terzo armatore mondiale, azionista di Air France in pista per comprare Ita Airways - ha decretato uno sconto di 750 euro per ogni container in arrivo dall’Oriente alla Francia. Ad aprile, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha tuonato contro le grandi compagnie di navigazione, annunciando severi controlli sui noli marittimi - ben sapendo che ormai import ed export della prima economia mondiale possono viaggiare solo più su navi asiatiche ed europee. Due episodi che riassumono la ratio della Tonnage Tax, l’aiuto fiscale diffuso in ogni grande nazione marittima, Italia compresa, finita al centro di molti dibattiti nelle sedi del commercio internazionale, con gli armatori (specie quelli del settore container, oggi il più redditizio) che stanno realizzando guadagni record e pagando (quasi) zero tasse.

Ma in buona sostanza, come funziona la Tonnage Tax? "Si tratta - spiegano dallo Studio legale Armella & Associati - di un regime opzionale forfettario di tassazione, calcolato su tonnellaggio e anzianità delle navi, inteso dal legislatore come un’agevolazione fiscale per gli armatori». Prendendo il caso più vicino, cioè l’Italia, «il regime può essere scelto volontariamente e ha durata decennale. Il reddito è determinato forfettariamente sulla base di un importo fisso giornaliero che varia a seconda del tonnellaggio": per le unità battenti bandiera italiana (perché il requisito principe è proprio quello di registrare la nave nel Paese che eroga l’agevolazione fiscale) esistono quattro coefficienti inversamente correlati al tonnellaggio netto della nave, regolati dal Tuir e illustrati nella tabella qui a fianco. "L’applicazione dei coefficienti dunque consente - spiegano ancora dallo Studio Armella - di ricavare l’importo giornaliero del reddito, da moltiplicare per i giorni di utilizzo della nave". Esempio: l’armatore con nave da 500 tonnellate di stazza lorda - un megayacht a noleggio - avrà un coefficiente di 0,009. Rapportato, poniamo, a un reddito medio giornaliero di 4,5 euro, per 200 giorni di navigazione all’anno, pagherà 900 euro di tasse all’anno. Una nave da 20 mila tonnellate (ad esempio un traghetto), coefficiente 0,004, reddito giornaliero 80 euro, con 300 giorni l’anno di navigazione pagherà 24 mila euro di tasse.

Sul fatto di pagare poche tasse gli armatori, sia italiani che esteri, non hanno mai fatto misteri, sottolineando però che la Tonnage Tax rimane tale negli anni di festa come in quelli tristi, perché chiaramente a questo regime fiscale non interessa se la compagnia chiude l’anno in attivo oppure in rosso: "Questo tipo agevolazioni - spiega Sara Armella, avvocato esperto in diritto tributario e doganale - vanno sempre inseriti nel contesto in cui vanno a operare. Gli armatori sono aziende internazionali, e l’introduzione della Tonnage Tax anche in Italia, ormai molti anni fa, serviva ad ancorarli al nostro Paese, senza lasciare che andassero verso realtà fiscali più accoglienti, evitando il depauperamento di un settore e salvaguardando i contratti dei lavoratori". Il primo Paese a introdurre il sistema fu la Grecia nel 1953, come incentivo per ricostruire la flotta dopo la seconda guerra mondiale. Un modello di tale successo che ben presto fu seguito da quasi tutti i Paesi (in Italia arrivò con il Registro internazionale nel 1998). Certo, le analisi condotte sui primi gruppi mondiali dello shipping danno numeri da far girare la testa, specie guardando i rapporti tra utili e tasse pagate.

La ripartenza dell’industria dopo i lockdown è stata come un vulcano che ha eruttato milioni di tonnellate di merce rimaste ferme per mesi, facendole piovere sui porti e bloccando l’intero sistema dei trasporti marittimi, su cui viaggia il 90% dei beni scambiati nel mondo. Questo ha fatto impennare l’inflazione (adesso in Europa aggravata dalla crisi energetica) e gonfiato i noli delle compagnie, che non avevano stiva sufficiente per stare dietro alla domanda, passando da una media di 1.200 dollari per il trasporto di un container (indice globale Freightos) a fine 2019 ai 10.997 di settembre 2021. La situazione si sta normalizzando, ma l’onda è ancora lunga: alla fine della scorsa settimana il nolo medio era di 5.900 dollari. Questo nel 2021 si è tradotto per le compagnie in 110 miliardi di utili (ma dopo averne persi altrettanti negli ultimi 20 anni, secondo McKinsey), quasi azzerando il rapporto tra tasse e utili (tabella a fianco).

Ma non va dimenticato che ad esempio la Maersk, cioè fino a febbraio l’armatore più grande del mondo, nel 2017 aveva pagato 219 milioni di dollari di tasse a fronte di un utile di 25 milioni, con una poco invidiabile aliquota dell’876%. L’anno dopo il conto pagato al fisco fu di 398 milioni di tasse, pure di fronte a 357 milioni di perdite. E all’epoca nessuno aveva niente da ridire. Oggi Gran Bretagna e Francia (prima dello sconto Cma Cgm sulle merci) avevano proposto un prelievo una tantum a carico delle compagnie. L’Ocse ha proposto una tassa del 15% come quella applicata alle big tech, che non dispiace alla logistica di terra, preoccupata per i maxi-investimenti che gli armatori, forti dei loro utili, stanno facendo in tutto il mondo. Ma in fondo, chissà cosa succeder al prossimo scossone dell’economia globale.

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